Il Mondo di Mezzo e la terra d’Abruzzo

di Alessio Di Florio

L’inchiesta “Mondo di Mezzo” (più nota come “Mafia Capitale”) a Roma ha acceso definitivamente i riflettori sulle dinamiche mafiose che inquinano la vita politica e sociale. Un coacervo – dalle dinamiche quasi sovrapponibili con il sistema criminale della “Terra dei Fuochi”, come nel sistema imperniato su Cipriano Chianese di cui ci siamo occupati di recente http://www.lagiustizia.info/sentenza-dappello-per-la-discarica-su-cui-indago-roberto-mancini-il-primo-a-scoprire-la-terra-dei-fuochi/ –  di interessi criminali e di commistioni tra clan, imprenditori, colletti bianchi e pezzi delle istituzioni. Solo la malafede, o il totale disinteresse e disprezzo per gli interessi della collettività, possono ancora portare a negare che le mafie non sono “coppole e lupare” di poche “mele marce” della società ma un intreccio di malaffare, interessi criminali, zone grigie e vere e proprie imprese che deviano l’economia dalla legalità per scopi illeciti. Nei primi mesi del 2019, grazie ai giornalisti d’inchiesta Nello Trocchia e Floriana Bulfon, il “mondo di mezzo” è stato documentato, analizzato e denunciato anche nelle librerie. Nel libro “Casamonica – viaggio nel mondo parallelo del clan che ha conquistato Roma” (in ordine cronologico il primo uscito) Nello Trocchia, oltre a riportare nomi, fatti (come le connessioni e l’esser cresciuti all’ombra dell’ex cassiere della banda della Magliana Nicoletti) e inchieste, sottolinea un dato che riporta alle origini dei Casamonica e di altri criminali “re di Roma”: la galassia criminale imperniata sui Casamonica va oltre i suoi mille appartenenti e il loro impero romano, a partire da altre “famiglie” come Spada, Di Silvio e De Rosa. Cognomi che, in larga parte, riconducono all’Abruzzo. La Regione, insieme al Molise, da cui i Casamonica partirono per la Capitale. Così come sono originari dell’Abruzzo i Fasciani e i Tredicine. Ma non è solo una questione di origini e lontane radici. In realtà è cronaca nera anche degli ultimi anni, costantemente presente negli atti giudiziari e nella stampa abruzzese. La favoletta dell’Abruzzo isola felice, sanissima con al massimo qualche “problemino” dopo il terremoto (copyright tra gli altri dell’ultima ex presidente della Commissione Antimafia e di quella che dovrebbe essere la maggior associazione impegnata contro le mafie d’Italia), è costantemente smentita da almeno 20/30 anni. E della vera storia d’Abruzzo e dei suoi “mondi di mezzo”, fatti di usura, estorsione, sfruttamento della prostituzione, violenze continue, gli affiliati e alleati dei Casamonica sono da sempre tra i maggiori protagonisti.

La Banda Battestini

Negli stessi anni in cui a Roma imperversava la Banda della Magliana, a Pescara era protagonista della cronaca la Banda Battestini che seminò il terrore tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta fu protagonista di 114 rapine tra Abruzzo e Marche e 2 omicidi. Arrestati una prima volta il 29 gennaio 1985, alcuni componenti della banda furono protagonisti di una sanguinosa fuga dal carcere di Pescara. Massimo Ballone, Claudio Di Risio, Raimondo Coletta, Francesco Gentile, Carlo Mancini e Franco Patacca, evasero dal carcere armati di pistola e coltelli, uno dei quali colpì il maresciallo Polidoro Legnini sfiorandogli il cuore. La fuga terminò un mese dopo, quando furono tutti rintracciati nel quartiere San Basilio a Roma e, nel conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, rimasero uccisi Mancini e Gentile. Uno dei due fratelli Battestini, Rolando, morì suicida nel carcere di Campobasso nel marzo del 1992. Tra i componenti della Banda anche Valerio Viccei, rimasto ucciso mentre tentava il colpo ad un portavalori lungo la provinciale che collega l’Adriatica ad Ascoli Piceno, passato alla storia come la mente della rapina più grande della storia: circa 140 miliardi sottratti il 12 luglio 1987 dal caveau del Safe Deposit Center di Londra.

Analogamente alla Banda della Magliana, il nome della Banda Battestini non è mai definitivamente uscito dalla storia criminale regionale e alcuni suoi appartenenti continuano ad essere protagonisti della cronaca nera di questi anni. Il 20 gennaio 2012 viene assassinato, mentre stava chiudendo il negozio di vernici che gestiva, Italo Ceci, considerato il “pentito” della Banda Battestini. Ceci era “rientrato” nella società, cercando un riscatto civile dopo gli anni della banda. E ci stava riuscendo, così come testimoniarono le tantissime dichiarazioni d’affetto e la grande commozione seguiti al suo assassinio. Ceci era considerato quasi un “angelo protettore” dai residenti e dai commercianti: la sua presenza dava sicurezza in una zona considerata da molti luogo di spaccio.

Nomi come Massimo Ballone e Claudio Di Risio quasi periodicamente ricorrono nella cronaca nera pescarese. A fine settembre 2006 un giro di vite porta all’arresto della “banda dei kalashnikov”, 9 persone vengono arrestate con l’accusa di aver organizzato alcune rapine a portavalori in perfetto stile militare compiute in diversi anni tra Pescara e Chieti che, a più di qualcuno, avevano riportato alla mente proprio i tempi della banda Battestini.
Nel marzo 2011 viene fuori che sono almeno sei gruppi dediti allo spaccio sulla piazza pescarese, con incursioni anche nelle province di Teramo e Chieti e in altre regioni. Nella rete degli inquirenti finì, tra i tanti, Claudio Di Risio.
La droga veniva importata in Abruzzo dall’Albania, da Napoli o dal Nord Italia.
L’11 luglio scorso Claudio Di Risio fu vittima di un agguato davanti casa, colpito da sei colpi di pistola di cui due alle gambe. Quattro giorni dopo, alle 3 e 10 del mattino, quattro colpi d’arma da fuoco (una pistola che i rilievi effettuati sul posto hanno evidenziato avere lo stesso calibro di quella responsabile del ferimento di Di Risio) vengono sparati verso la sua abitazione. Un atto che fu definito un segnale intimidatorio.
Il “ferro di cavallo” e l’ascesa dei Ciarelli

Si spara sempre più e con grande facilità a Pescara, vari sono stati i sequestri di armi da parte delle forze dell’ordine. Si spara e si arriva anche ad uccidere. Nel solo 2012, oltre ad Italo Ceci, furono assassinate altre due persone e la sera del 25 aprile una prostituta fu vittima di un altro agguato. Questi ultimi 3 fatti di cronaca hanno coinvolto tutti esponenti di una sola famiglia: quella dei Ciarelli. Una famiglia da tantissimi anni protagonisti della cronaca giudiziaria, a partire dal traffico di stupefacenti. Una zona di Pescara, quella tra Rancitelli e Ferro di cavallo di via Tavo, è considerata un vero e proprio supermarket della droga, un centro commerciale che costituisce un punto di riferimento anche per lo spaccio di altre zone della Regione.
Gli inquirenti nel gennaio 2005 colpiscono quello che considerarono un vero e proprio sodalizio tra i Ciarelli e persone provenienti dall’Albania, sostenendo l’esistenza di una fittissima rete tra Pescara, il Nord Italia, l’Albania stessa e la Puglia, dove gli Spinelli avrebbero garantito l’aggancio con alcuni esponenti di spicco della Sacra Corona Unita.  Anche a seguito di operazioni come queste, i canali di rifornimento del mercato pescarese della droga negli ultimi anni si sono spostati da Albania e Puglia alla Campania, portando al rafforzamento del connubio tra i mercati e i mercanti delle due regioni.

I membri della famiglia Ciarelli, considerati da inquirenti e stampa locale un vero e proprio clan, appaiono tra i maggiori protagonisti dello spaccio di stupefacenti. Giunti dal vicino Molise quarant’anni fa circa (casualità vuole proprio negli anni in cui i Casamonica da Pescara si diressero verso Roma), dagli Anni Novanta sono considerati tra i padroni del mercato della droga. La loro ascesa viene fatta iniziare in quello che fu definito il “battesimo del sangue”: a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta, sentitosi offeso per non essere stato invitato ad una festa di battesimo, uno degli esponenti della famiglia irruppe a Silvi durante la festa sparando. Tutti ricordano la testata violenta contro Daniele Piervincenzi ad Ostia. Nel febbraio di quest’anno c’è stato un seguito nel quartiere Rancitelli di Pescara. Seguito da silenzi, omertà, balbettii imbarazzati. A livello della società civile praticamente le uniche voci – oltre lo sdegno del Sindacato Giornalisti – che si sono levate, denunciando il sottobosco criminale e violento pescarese e abruzzese, sono state del Movimento delle Agende Rosse e di Azione Civile. Silenzio totale da aspiranti ruspisti, rondisti e dai “difensori della patria” sempre pronti – braccia tese e rievocazione del ventennio fascista in bocca e sulle bandiere – a scatenare tutto e il contrario di tutto quando è comodo per la loro propaganda neofascista, razzista e xenofoba. Ma, in questo caso, silenzio tombale. Al contrario, dell’aggressione di Ostia. Lì Piervincenzi, foto e fatti alla mano, stava chiedendo ad Ostia dei rapporti con Casa Pound … Nella zona della città dove è stato aggredito Piervincenzi, poco più di un anno fa il Sindacato degli Inquilini denunciò uno stato d’assedio con gang che “si fanno la guerra per spartirsi il territorio”, “bande di soggetti che girano armati di coltelli e pistole, che spacciano droga, minacciano e picchiano le donne del quartiere che osano ribellarsi. Squarciano gli pneumatici delle auto, su cui versano a sfregio barattoli di vernice colorata”, occupazione abusiva di alloggi “presi con la forza e le minacce ai residenti: se non ve ne andate, bruciamo le case. Dentro gli appartamenti vuoti, vengono lasciati a guardia i pitbull. Gli alloggi vengono poi rivenduti, da questi soggetti ai disperati, per cifre che vanno dai 600 ai 2000 euro”. I residenti, denunciarono gli esponenti del Sunia, vivono “nel terrore” di “gente che si accoltella” e va “in giro armata di pistola, che controlla un giro di prostituzione e pedofilia, che si rivendono tra di loro gli appartamenti da occupare a 6-700 euro l’uno”.     

Le morti di Straccia e Neri e le possibili connessioni con il traffico di droga

Un anno fa lo stesso Piervincenzi ha denunciato durante una trasmissione televisiva RAI che “Pescara è una zona d’ombra del nostro paese, un hub commerciale del narcotraffico, lì passa eroina, cocaina, passano armi e ci sono famiglie che hanno consolidato il controllo del territorio, alcune anche di origine sinti come abbiamo visto ad Ostia. Pescara è un altro dei luoghi oscuri del nostro paese”. Parole pronunciate durante un’intervista successiva all’omicidio del giovane Alessandro Neri nel capoluogo adriatico. A novembre scorso è emerso un possibile collegamento tra gli arresti di una maxi operazione antidroga e l’omicidio di Neri. Il ragazzo potrebbe essere stato ucciso, secondo la ricostruzione resa nota, al culmine di una lite per il mancato pagamento di una partita di droga, di cui si sarebbe fatto garante. La sua capacità di intavolare trattative di compravendita di ogni tipo, dalle aste alle auto, secondo la ricostruzione può aver indotto personaggi della criminalità locale a sfruttarla per la compravendita della partita che poi gli è costata la vita. Traffico di droga al centro di una pista anche per un altro omicidio avvenuto negli ultimi anni a Pescara, quello di Roberto Straccia. Archiviato ufficialmente come “non omicidio”, un investigatore privato incaricato dalla famiglia del giovane ha ipotizzato che potrebbe essere stato ucciso perché testimone di un traffico di droga nel porto di Pescara. Quel porto che nella “Relazione sull’attività delle forze di polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata” (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/328810.pdf ) relativa al 2015, comunicata alla Presidenza del Senato il 4 gennaio 2017, venne definito “il più importante dell’Abruzzo e per i suoi accresciuti scambi commerciali con i Paesi dei Balcani occidentali costituisce uno snodo cruciale per i traffici di sostanze stupefacenti e di esseri umani” – e sul richiamo dell’intera provincia per “sodalizi mafiosi interessati al reinvestimento di capitali illecitamente accumulati”. Tra le attività criminali segnalate nel rapporto spiccano spaccio di stupefacenti, corse clandestine dei cavalli, gioco d’azzardo, truffe, estorsioni, usura, tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione “anche minorenni”, sfruttamento della “manodopera clandestina”. Proventi di attività illegali, si legge ancora, “vengono reinvestiti anche nell’acquisto di esercizi commerciali ed immobili”.

Alcune delle maggiori operazioni, da Teramo a Vasto

Nel luglio 2017 l’operazione Omphalos della procura di Napoli stronca “un’attività di riciclaggio realizzata essenzialmente attraverso investimenti immobiliari, con la complicità di funzionari di banca e amministratori comunali” che ha visto coinvolti i clan Mallardo, Puca, Aversano, Verde, Di Lauro e Amato- Pagano e che ha portato al sequestro di un patrimonio stimato 600 milioni in varie regioni tra cui l’Abruzzo. Due mesi dopo un nuovo sequestro sempre contro attività di reinvestimento di esponenti del clan Mallardo in Toscana, Abruzzo, Molise e Puglia. Il clan Mallardo è attivo nel territorio di Giugliano in Campania ma uno dei dati delle due inchieste che colpisce è che l’unica Regione coinvolta in entrambi è l’Abruzzo, non la Campania.
A marzo 2018 è emersa la notizia che l’ex boss del clan camorristico La Montagna di Caivano, oggi pentito, Carlo Oliva ha ricostruito i traffici di droga tra Napoli e Teramo in un processo contro un vasto giro di usura, estorsioni, rapine e spaccio. A maggio otto arresti sono stati eseguiti tra la Marsica e la Provincia di Napoli, conseguenti di un’inchiesta avviata con il sequestro di un enorme campo di marijuana (migliaia di piante per un peso complessivo di 6 tonnellate) nascosta tra le piante di mais.  Al vertice del sodalizio criminale, secondo gli inquirenti, Antonino Di Lorenzo e Ciro Gargiulo. Erano stati scarcerati l’anno scorso dopo l’arresto nel 2014, nel corso dell’operazione “Secundario” a Castellamare di Stabia che colpì un cartello di cinque clan che si erano alleati per esportare la droga ma anche per importare la cocaina dal
Venezuela, Spagna e Olanda. Cartello animato da clan di Torre Annunziata, Torre del Greco, Piana del Sele e Andria. A Marzo erano già scattati 11 arresti contro un’associazione dedita al traffico di droga e alla detenzione illegale di armi. Il sodalizio puntava a costruire tra Alba e Martinsicuro le basi operative di un traffico di droga che doveva coprire i mercati criminali del teramano e e delle Marche. Cocaina, marijuana e hascisc dalla Campania, soprattutto da Secondigliano, dovevano giungere nei locali della costa teramana e marchigiana frequentati anche da giovanissimi.
All’alba del 21 febbraio 2017 l’operazione Design colpisce una rete di spaccio, usura e riciclaggio riconducibile alla ‘ndrangheta reggina tra Abruzzo, Lombardia, Campania e Calabria. Al vertice del sodalizio criminale i Cuppari, giunto a Francavilla nel 2009 dove stava reinvestendo capitali di origine illecita. I proventi dello spaccio della droga venivano quindi, reimpiegati nell’acquisizione di attività commerciali – nel settore della raccolta di scommesse elettroniche e nella ristorazione – e in episodi di usura in danno di piccoli commercianti e imprenditori locali in difficoltà. I profitti venivano in parte reimpiegati in attività imprenditoriali in Calabria, come nel commercio di autoveicoli e nella realizzazione di villaggi turistici di grandi dimensioni.
Tra le frontiere abruzzesi della penetrazione delle mafie sicuramente c’è Vasto. A partire dal 2006, anno dell’operazione Histonium, diverse inchieste hanno stroncato il tentativo di costruire vere e proprie cosche autoctone. Tre i dominus intorno ai quali stavano nascendo queste organizzazioni:  prima Pasqualone, poi Cozzolino e infine Ferrazzo. Organizzazioni criminali che si erano radicati nel territorio, imponendosi con la violenza e

capace di organizzare anche veri e propri attentati. Ma tante altre sono state le inchieste, occorrerebbe probabilmente un libro per ripercorrerle tutte, che hanno stroncato negli anni traffici di stupefacenti, estorsioni e usura. Nell’agosto scorso una delle ultime maggiori che hanno coinvolto “famiglie” imparentate coi Casamonica, Spinelli e De Rosa, e nella quale (per la prima volta in questo territorio!) è comparsa anche un’esponente degli Spada. Altre inchieste, l’ultima all’inizio di quest’anno, ha interessato le rotte del traffico di droga dalla Puglia, spesso proveniente dai Balcani, al vastese. Un traffico internazionale, quello sulla direttiva Albania-Puglia-Vasto, documentato anche da un’inchiesta del reporter spagnolo David Beriain sulle organizzazioni criminali albanesi andato in onda sul canale 9 il 23 gennaio scorso.

L’allontanamento del giudice La Rana per le sue inchieste scomode

Ma Vasto è stata anche la città di un altro episodio, inquietante su certi aspetti e quasi sconosciuto a livello nazionale. A inizi anni Duemila è costretto a lasciare la città il giudice La Rana, nel mirino di una campagna di fango e delegittimazione dopo che alcune sue inchieste avevano toccato alti livelli politici locali. Una campagna partita, riportò il GIP di Chieti, da una “vera e propria spedizione bellica, premeditata, organizzata e studiata nei particolari”. Una spedizione con al centro un vero e proprio dossier, pieno di false accuse, con il quale fu oggetto di svariate denunce nel 2003. Tutte nel tempo rivelatesi infondate. Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto: infangato e allontanato da Vasto il giudice La Rana non poté proseguire le sue inchieste. Nel 2011 dopo la notizia uscita su un quotidiano locale, in realtà destituita di fondamento, che poteva tornare a Vasto il giudice La Rana si vide recapitare un proiettile calibro 9 parabellum e una lettera con il messaggio “sei proprio sicuro di voler tornare a Vasto? Pensaci bene”.

L’arrivo e la permanenza del rampollo della famiglia Riina

Questo è il territorio dove, un anno e mezzo fa, è sbarcato il terzogenito di Totò Riina, Giuseppe Salvatore detto Salvo. L’autore del libro sulla sua famiglia, dove veniva elogiato il padre Totò, presentato anche a Porta a Porta. Già condannato in passato a 8 anni per associazione mafiosa, Salvo Riina era sottoposto a misure restrittive a Padova. Dopo che era stata accertata la sua frequentazione con spacciatori locali, nell’autunno 2017 Salvo Riina viene spedito nella Casa Lavoro di Vasto. Da dove è passato a scontare la sua pena residua in una fattoria sociale nella vicina Casalbordino. E’ tornato libero nel maggio scorso, quando il Tribunale di Pescara gli ha revocato le misure restrittive. La sua assidua attività social, dove continuamente continua a pubblicizzare il suo libro, a spendere parole di gratitudine e vanto per il padre Totò la sua famiglia e altre attività che rendono a dir poco perplessi, ha suscitato alcune prese di posizione negli ultimi mesi degli attivisti locali di Azione Civile e Movimento delle Agende Rosse. Azione Civile ha sottolineato che “nel 2001 passando in autostrada all’altezza di Capaci disse “Ci appizzano (appendono, ndr) ancora le corone di fiori a ‘stu cosu (a questa cosa, ndr)…”, parole che non ha mai rinnegato. Così come non ha mai pubblicamente preso le distanze dalla sua famiglia di origine, o addirittura a collaborare con la magistratura, mentre sui social e in interviste rilasciate non ha mai smesso di “raccontare quello che continua a definire un buon padre”. Il 19 giugno il suo nome è tornato sulle cronache giudiziarie, anche se (al momento in cui quest’articolo viene scritto) per dovere di cronaca va riportato che non risultato essere destinatario di alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria. Nell’ambito dell’operazione “Assedio”, condotta dai carabinieri di Agrigento, viene arrestato Angelo Occhipinti, indicato come il nuovo capomafia di Licata. Intercettato dagli inquirenti, durante una “riunione” in un magazzino nel  luglio scorso, Occhipinti afferma – riferendosi a Riina Jr – che “quello è un ragazzo che ci scappelliamo tutti” (davanti a quel ragazzo ci togliamo tutti il cappello). E’ la risposta ad uno dei convocati alla riunione, Massimo Tilocca che è stato recluso dal dicembre 2017 al maggio 2018 nella Casa Lavoro di Vasto. Tilocca, secondo quando emerso, aveva appena riferito che – nel periodo trascorso a Vasto – avrebbe ricevuto un pizzino da Salvo Riina con l’ordine, una volta uscito dal carcere, di “stuccare” (ovvero eliminare) un licatese, tal Vincenzo Sorprendente. Nel renderlo noto, a margine dell’operazione “Assedio”, gli inquirenti hanno sottolineato che su questa particolare vicenda le indagini sono ancora in corso e quindi non si può ancora ufficialmente confermare o smentire nulla.