Via D’Amelio e il depistaggio di Stato
di Enza Galluccio, autrice di testi sulle relazioni tra poteri forti e criminalità organizzata
Ci sono voluti 26 anni, 4 processi e 14 mesi per giungere alla conclusione che oggi appare eccezionale a coloro che in questi giorni commentano le motivazioni della sentenza relative al Borsellino quater, depositate pochi giorni fa.
Dunque, oggi si ha il coraggio di ammettere che tutto quell’intreccio di testimonianze e di imputati colti in strada, che ha caratterizzato il c.d. “processo Scarantino”, è stato uno “dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Eppure nel corso degli anni molti avevano parlato in questi termini. Giornalisti e non solo avevano pubblicato numerosi articoli sulle smentite di molti collaboratori di giustizia. Certo, ci vogliono i processi per avere delle sentenze, ma non possiamo negare che i tempi lunghi e i tentativi di mettere pietre tombali su tutta la “questione” via D’Amelio, sui mandanti più che sugli esecutori reali, sul ruolo di magistrati come Tinebra e su figure istituzionali come Contrada sono stati troppi, persino surreali in alcune fasi. Non se ne voleva parlare e non si è fatto altro che sminuire la portata delle rivelazioni e delle prove giunte al processo.
Ma in cosa consiste questa eccezionalità? Lo scandalo è che la responsabilità di questo clamoroso depistaggio è da ricondursi a parti ben collocate all’interno dello Stato, in una sorta d’intesa con Cosa nostra. Interessi che convergono ancora una volta tra mondi criminali e poteri forti istituzionali.
Anni di grovigli e testimonianze finalizzate a ricostruzioni fantastiche per ridurre la strage palermitana che fece saltare in aria il magistrato Paolo Borsellino insieme ad Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina che facevano parte della sua scorta, al lavoro di qualche balordo del quartiere della Guadagna, neanche troppo collocato all’interno del mondo mafioso.
Come potevamo crederci? Fin da subito la testimonianza e l’autoaccusa di Vincenzo Scarantino erano apparse poco credibili anche agli occhi dei non addetti ai lavori. Eppure si è andati avanti su questa pista senza abbandonarla mai completamente fino alla sentenza del quater.
Dunque, per chi si è occupato delle indagini e per chi ha messo in piedi i processi, uno degli attentati tecnicamente più sofisticati della storia italiana poteva essere eseguito da figure improbabili come quelle che per anni si sono sedute al banco degli imputati.
Tra i fautori di questo depistaggio, costruito a tavolino nel retropalco dei processi, si annoverano nomi come quello del capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, il quale aveva l’incarico di individuare i responsabili delle bombe mentre, in realtà, componeva un puzzle fatto di falsi pentiti indotti a dichiarare fatti ed elementi realmente accaduti e presenti in via D’Amelio quel terribile 19 luglio del 1992. Pertanto, sono emerse non solo fantasie ma anche cose vere dichiarate da testimoni e imputati falsi, quindi, una verità era già in mano a chi si è occupato di tali dichiarazioni che sostenevano l’impalcatura dell’intero depistaggio.
Inoltre, il procuratore di Caltanissetta di allora era Tinebra, il quale aveva chiesto la collaborazione nelle indagini nientemeno che al discusso Bruno Contrada, numero uno del Sisde. Una scelta “decisamente irrituale”, come l’ha definita la stessa Corte.
Nelle motivazioni della sentenza, infine, si parla anche della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, inquietante elemento che ritorna al centro dell’interesse dei giudici che ritengono ci sia anche una connessione tra quel misterioso occultamento e lo stesso depistaggio.